Lingua Italiana

Si dice melograno o melagrana?

Fra i dilemmi lessicali che più spesso emergono nelle redazioni figura la coppia «melograno» / «melagrana». Due voci antiche, figlie del Mediterraneo, che rimandano a pergolati assolati, mercati autunnali e ricette color rubino.

Origine storica dei due termini

Il latino mālum grānātum — «mela con i grani» — giunse sulle coste italiche attraverso rotte commerciali che collegavano la Persia a Roma. Durante il Medioevo la forma popolare conobbe una biforcazione semantica: da un lato «melograno», impiegato per indicare l’arbusto spinoso coltivato negli orti monastici; dall’altro «melagrana», preferita nei ricettari per segnalare il frutto dalla scorza coriacea.

Testimonianze documentarie del Quattrocento mostrano già la netta distinzione: mentre gli erbari descrivevano le proprietà della corteccia di melograno, i poeti magnificavano il succo della melagrana come metafora di vita rigogliosa.

Origine etimologica dei due termini

Ricostruendo il percorso delle parole, si scopre che melograno discende dal latino mălum grānātum, letteralmente “mela dai chicchi”, in cui mălum designava genericamente il frutto e grānātum richiamava la granella interna. Attraverso l’evoluzione fonetica, mălum ha lasciato il posto a “melo-”, mentre grānātum ha dato origine a “-grano”.

Melagrana, invece, nasce dalla stessa locuzione latina, ma subisce una ricomposizione: il suffisso femminile -a prevale, probabilmente per analogia con “mela”. In altre parole, le due forme condividono la radice, ma sono il frutto di percorsi morfologici diversi che, pur partendo dallo stesso seme, hanno germogliato in due parole differenti, pronte a convivere nello stesso campo lessicale.

Melograno per parlare dell’albero

Quando l’argomento riguarda botanica, agricoltura o paesaggistica, «melograno» risulta la scelta più naturale. Frasi del tipo «potatura del melograno» o «messa a dimora di un melograno in vaso» incontrano l’uso corrente e soddisfano le ricerche online relative alla coltivazione.

Occorre ricordare che i moderni manuali di frutticoltura mantengono tale coerenza terminologica: albero = melograno. In ambito alimentare la parola resta comunque ammessa, come attestano etichette di succhi e integratori, ma la frequenza d’impiego rimane inferiore rispetto a «melagrana».

Melagrana per indicare il frutto

Il termine «melagrana» richiama immediatamente gli arilli traslucidi che illuminano insalate d’autunno, risotti cremosi o dessert d’alta pasticceria. Le ricerche digitali confermano questa percezione: interrogazioni su calorie, virtù antiossidanti e abbinamenti culinari prediligono la forma femminile.

Indicazioni dei principali dizionari

I principali dizionari convergono: entrambe le voci sono corrette, ma coprono ambiti distinti. «Melograno», albero e occasionalmente frutto; «melagrana», frutto. L’Accademia della Crusca ribadisce la convenienza di preservare il dualismo.

Uso comune e registri linguistici

Nella lingua dell’uso, un fattore determinante è il registro. Melograno appare più diffuso negli ambiti botanici e nel linguaggio specialistico: chi si occupa di agronomia, per esempio, tende a identificarvi tanto la pianta quanto il frutto. Melagrana, al contrario, risuona con forza sulle tavole e nei mercati, dove la concretezza del frutto prende il sopravvento sulla pianta che lo produce.

C’è poi il parlato informale, in cui le due parole spesso si alternano senza criteri rigidi: la preferenza, in questo caso, dipende dalla tradizione familiare o dal contesto regionale. Ne risulta un panorama variopinto, in cui la scelta non appare prescrittiva ma condizionata da abitudini consolidate.

Differenze di impiego in cucina e botanica

Sul fronte gastronomico, chef e appassionati di cucina propendono per melagrana, soprattutto quando la ricetta esalta i chicchi, o arilli, dal succo brillante. Nei menu, “insalata di melagrana” suscita un’immediata associazione con la freschezza e il colore vermiglio del frutto sgranato, pronto a punteggiare pietanze salate e dessert.

Chi si occupa di coltivazione, potatura o innesti, preferisce invece melograno, giacché la parola racchiude l’intera pianta, con rami spinosi e foglie lucide. Non è un caso che in vivaio si venda “un melograno di due anni” mentre in cucina si chieda “una melagrana matura”. La distinzione, benché non obbligatoria, risponde a un principio di precisione: all’albero il maschile, al frutto il femminile.

Significati simbolici e proprietà nutrizionali

Fin dall’antichità il frutto è emblema di fertilità, prosperità e rigenerazione. Nella mitologia greca Persefone assaggia chicchi di melagrana prima di discendere negli inferi, atto che sancisce l’alternanza delle stagioni. In epoca cristiana, la sfera vermiglia diviene segno di resurrezione e regalità, apparendo in numerosi dipinti rinascimentali.

Sul versante dietetico, la melagrana fornisce vitamine C e K, polifenoli, fibre solubili; i semi contribuiscono a un apporto di acidi grassi insaturi utili al profilo lipidico. Il valore energetico moderato — circa 65 kcal per 100 g — la rende adatta a piani alimentari equilibrati.

Il succo, ricco di punicalagina, supporta l’azione antiossidante e si presta a bevande funzionali. Anche la corteccia del melograno trova impieghi erboristici per la presenza di tannini, sfruttati fin dal Medioevo per la concia delle pelli.

Varianti regionali e preferenze geografiche

Analizzando la diffusione dei termini sul territorio, emergono inclinazioni differenti. Nell’Italia settentrionale, melograno domina, forse per la maggior presenza di testi agronomici nelle aree di coltura intensiva.

Scendendo lungo la penisola, melagrana recupera terreno, soprattutto nel Centro-Sud, dove le tradizioni gastronomiche locali (pensiamo al rosolio calabrese o alla granita siciliana) valorizzano il frutto in preparazioni artigianali.

Questo non significa che al Nord melagrana sia assente; semplicemente, risulta meno consueta. Il fattore regionale, dunque, incide, ma non detta regole immutabili: la mobilità delle persone e dei dialetti porta a scambi continui, con risultati spesso imprevedibili.

Consigli pratici per la scelta del termine

Alla luce di quanto esposto, quale forma adoperare? Alcune linee guida possono agevolare la decisione:

  1. Contesto professionale agricolo o scientifico: privilegiare melograno per indicare sia pianta sia frutto, così da mantenere coerenza con la terminologia specialistica.
  2. Ricettari, blog di cucina, menu: puntare su melagrana quando l’attenzione cade sui chicchi o sul sapore, poiché il femminile richiama più facilmente l’immagine del frutto pronto da gustare.
  3. Lingua corrente e conversazione: entrambe le varianti sono corrette; vale la pena adeguarsi all’uso prevalente nella propria area o al registro dell’interlocutore.
  4. Testi divulgativi o scolastici: sfruttare la complementarità delle due parole, introducendo melograno per la pianta e melagrana per il frutto, così da fornire una distinzione netta che aiuti la memorizzazione.
  5. Enfatizzare la tradizione letteraria: se si cita poesia o prosa classica, ricordare che melagrana ricorre con frequenza, da Carducci a Pascoli, e può conferire un’aura di classicità al discorso.

Una scelta lessicale, quando affonda le radici in vicende secolari, non è mai arbitraria. Melograno e melagrana si presentano come due facce dello stesso gioiello botanico: la prima più tecnica e comprensiva, la seconda più domestica e legata alla tavola.

L’italiano contemporaneo le accoglie entrambe, permettendo a chi scrive o parla di modulare il linguaggio secondo contesto, destinatario e sfumatura desiderata. Che si pianti un melograno in giardino o si apra una melagrana per guarnire un risotto, il risultato non cambia: morderemo chicchi lucenti, simbolo di abbondanza sin dall’antichità.

Conoscere le due parole e usarle con consapevolezza aggiunge precisione allo stile e risponde, con eleganza, alla curiosità linguistica che si nasconde dietro un frutto tanto antico quanto attuale.

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